PAESE SERA

     11 maggio 1977 www.ciroridolfini.it

 

Al Poliedro il lavoro di Ridolfini e Ferrante

«Le parole e la città» L'incubo di Viviani

 

UNA SCENOGRAFIA vera e propria non c'è: ne sopravvivono, a titolo di denuncia del loro essere strumentale nell'ambito della finzione drammaturgica gli elementi predisposti da Antonio Neiwiller, oggetti di una frusta quotidianità (occhiali, una sveglia, una bombetta) attaccati a un pannello in cornice appeso sopra lo specchio davanti al quale l'unico attore si trucca. E la colonna sonora rimanda ossessiva il frastuono assordante delle betoniere, delle ruspe e dei clackson, ricostruito da Andrea Buondonno con il sintetizzatore e altri apparecchi elettronici e su cui i versi si intagliano nudi, spogli di ogni connotazione oleografica.
     La tesi che sta dietro «Le parole e la città», lo studio di Roberto Ferrante e Ciro Ridolfini sulla poesia urbana di Raffaele Viviani presentato al Poliedro dalla Cooperativa «Teatro dei Mutamenti » per le regia dello stesso Ferrante, risulta in somma subito chiara. Viviani non fu un poeta «popolare», fu un intellettuale che ebbe con Napoli un rapporto allucinato e allucinante e da quel rapporto derivò un si sistema di segni che, decodificati, preannunciano la follia della moderna città capitalistica.
     E' una tesi che non ha bisogno di eccessive dimostrazioni. Basta ricordate quei due versi: «Fravecammo 'a casa 'o prossemo / sulo 'a nosta sta 'nprugetto». Dove non è chi non veda come, in un processo crudele e però lucidissimo, il tessuto verbale concreto e plebeo risulti legato dal termine finale colto ed elaborato, che lo solleva in un'atmosfera quasi astratta e ne impedisce quindi qualsiasi interpretazione in chiave di sentimentalismo.

 

   

L'alienazione
dell'uomo

 

     Su questa traccia, la messa in scena di Roberto Ferrante (che peraltro dovrebbe acquistare un ritmo più veloce, troppo lunghe essendo le pause di buio fra le varie sequenze) offre momenti assai belli: ad esempio quando — nel corso della «Passeggiata» per Napoli fra la dimensione dei morti di fame che nascono come microbi, la schiuma della miseria, e quella degli emarginati che resistono disperatamente alla periferia della città produttiva — ci si imbatte nel pescatore che figura con una gomena lo spazio precario occupato dalla sua baracca di fronte alla continua avanzata dei palazzoni di cemento.

     Dunque, uno strumento di lavoro che diventa l'immagine fisica dell'alienazione dell'uomo. Allo stesso modo, i versi di «Carcerato» e di «Fravecature » si intersecano gli uni con gli altri, a stabilire identità fra la condizione del recluso e quella dello sfruttato: sicché lo «straniamento» a livello del gesto e la recitazione puntualmente spezzata dalle intermittenze ed oscurità (sul palcoscenico resta solo il lieve barlume della piastra di registrazione) annullano per lo spettatore anche la più piccola possibilità di identificazione naturalistica con il tema.

   

     Ottima la prova di Ciro Ridolfini, il quale accoppia alla raggiunta maturità espressiva una maschera che a tratti, nella fredda luce radente, riproduce esattamente la smorfia feroce di Viviani. Al termine, ancora truccato, mi si avvicina e dice d'un fiato: «Prima di morire, Viviani tacque per dodici ore. Poi urlò: "Arapite 'a fenesta, feciteme vede' Napule!", e morì ». E vuole spiegare, Ridolfini, che il poeta non intendeva certo riferirsi alla Napoli col pino delle cartoline, ma a quella che aveva sentito come un incubo mentre, in «Nuttata chiara», avvertiva, insieme con la difficoltà di continuare a scrivere, la propria separazione sovrastrutturale.


La parola
come grido

 

     Però, non occorrono spiegazioni: Ridolfini ha condotto ricerche su Viviani a Castellammare ed io ho lasciato l'infanzia e l'adolescenza nella stessa strada di Castellammare dove nacque Viviani.
Verminaio di case putrefatte e intrico di passioni malate in cui fu ben necessario imparare la parola come suono e grido.

 

Enrico Fiore