NOSTRO TEMPO

     gennaio - marzo 1974 www.ciroridolfini.it

 

Salvatore Di Giacomo
al San Genesio di Roma

     La trascrizione in chiave teatrale di opere di narrativa e di poesia obbedisce, a nostro avviso, alla tendenza di tradurre in linguaggio iconico e fonico il testo scritto e testimonia il condizionamento sempre più clamoroso dell'esercizio culturale alle nuove formule del nostro vivere quotidiano. La sorte, già toccata a numerosissimi autori sul piccolo schermo del televisore (da Manzoni a Fogazzaro; da Verga a Bacchelli; da Tolstoi a Remarque; ecc.) va riscontrata anche sulle tradizionali assi del palcoscenico, tanto che perfino la letteratura intimista non è sfuggita a simile sorte come dimostrò il successo del Diario di Anna Frank, che commosse le platee di tutto il mondo, e come — più recentemente — ha conclamato «Il vizio assurdo» di Lajolo e Fabbri. E' indubbio che la suggestione lirica, l'emozione drammatica di una lettura individuale e solitaria (dove il lettore è attore e spettatore) si sviluppano a dismisura quando la pagina scritta si traduce in elemento scenografico dove attore, colore, luci, musica e altri effetti collaterali si fondono in una sequenza spettacolare davanti a una comunità di «lettori-ascoltatori» che si trasmettono le reazioni in un sentimento che trascende il breve cerchio di ogni personale sensibilità.
     Si tratta, naturalmente, di vedere fino a che punto questa operazione culturale non «tradisca» il testo che intende trasmettere; fino a che punto lo spettacolo vuole riproporre con fedeltà un poeta, uno scrittore o un diarista e se, invece, non si tratti di una «ricreazione» arbitraria, imponendosi come diversificazione di un testo già consacrato a un rigido linguaggio che non può essere mutato senza mortificarlo.
     Il Centro Teatrale di Castellammare di Stabia già da qualche anno opera una serie di ricerche-studio su autori napoletani, affrontando testi di Scarpetta, di Petito, di Viviani, di Eduardo e, ultimamente, di Salvatore di Giacomo. Sotto la regia di Ciro Madonna un gruppo di giovani (che manifestano un indubbio talento melodrammatico) ha approdato al San Genesio di Roma con uno spettacolo su «Salvatore Di Giacomo-poeta», dopo averlo sperimentato con successo a Cava dei Tirreni, a Castellammare di Stabia, a Sorrento e in altri centri minori della provincia. Operazione teatrale ardita, con l'insidia (o la tentazione) di trasferire in un facile modulo folkloristico e popolaresco un poeta i cui valori universali di poesia non consentono compromessi e riduzioni. Ma i giovani del CAT, con la preziosa consulenza di Ettore De Mura, hanno compreso come il centro della doviziosa raccolta lirica del poeta napoletano sia l'uomo, con i suoi affetti, con le sue malinconie, le sue gioie, i suoi dolori, le sue ire, la sua pietà: e anche quando (lo scriveva il Flora) l'autore sembra cantare la natura molle e voluttuosa della terra partenopea, c'è sempre una nota di profonda umanità che fa da contrappunto, scavando con mano leggera nell'anima complessa del suo popolo.

   

     Gli elementi dello spettacolo sono semplici e lineari: cinque attori (recitanti e cantanti), un pianoforte, un sapiente e suggestivo movimento di luci, affidato ad Andrea Guarino. E l'aver mescolato poesia e musica non ci sembra un sopruso scenico per conseguire una facile presa sul pubblico. L'elaborazione pianistica di Enrico Forte è volutamente semplice, elementare, echeggiante più il tocco ingenuo del «pianino» che l'accordo aristo­cratico del pianoforte. D'altronde con i brani tolti da 'O fùnneco verde, da 'O dichiaramento e da 'O nteresse si giunge agli accenti altamente drammatici d' 'O munasterio e della Zi' munacella fino a quando lo spettacolo non si acquieta proprio nei versi che Di Giacomo scrisse per le canzoni, in cui il verso è già di per se stesso musica e le parole risuonano come accenti di una melodica che attinge allo spirito anonimo di un popolo sognatore e passionale.
     Italo Celoro, Piero Pepe, Ciro Ridolfini, Camilla Scala e Anna Spagnuolo hanno dato vita a sequenze fascinose in uno spettacolo che conserva una sua unità lirica, senza fratture e scadimenti. Le scene di 'O munasterio o quella di A San Francisco hanno trasmesso alla platea la tensione drammatica della poesia digiacomiana; l'accordo delle voci, le pause stesse, le note di un misurato commento musicale hanno ricreato una suggestione di buona fattura teatrale. E la parte canora e corale (Era de maggio) ha esaltato lo spettatore trascinandolo di volta in volta alla malinconia dolce dell'antico paesaggio napoletano o alla gioiosità viva e polifonica delle folle trepidanti di sogno per sfuggire al dramma della vita quotidiana che, comunque, è un sottinteso che non si dimentica.
     Tutti gli interpreti meritano lode incondizionata e in paritcolare Ciro Ridolfini che ha sostenuto validamente il suo ruolo con incisiva generosità e con una gestualità misurata e convincente. Al regista Ciro Madonna il riconoscimento di una fatica sofferta per eliminare le pause fastidiose di un testo necessariamente antologico.

 

G.V. Paolozzi