LA MARIA JOSE' DI RIDOLFINI

Prefazione al libro MARIA JOSE'

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     É stato scontatamente rilevato, e non certo da chi scrive, che con l'Unità d'Italia Napoli perse ministeri, ambasciate, funzioni, prerogative, "le residenze lussuose" del bel mondo, i privilegi di capitale del Mezzogiorno per assumere il più modesto ruolo "di capoluogo di provincia". Tale e quale a Torino, che non fu più capitale del Regno.
     Ma mentre quest'ultima fu confortata dalla FIAT, da insediamenti industriali, da provvidenze massicce, Napoli perse le fonti principali di sopravvivenza della sua popolazione. Il porto subì un rovinoso tracollo, perché i traffici marittimi confluirono a Genova e a Livorno. I dazi e le barriere doganali danneggiarono commercio e artigianato. Il Regno si preoccupò persino di suddividere il "Banco delle Due Sicilie" in "Banco di Napoli" e "Banco di Sicilia".
     É altrettanto scritto ciò che accadde nell'intero Mezzogiorno. I nuovi ricchi ricostituirono il latifondo e diventarono i nuovi baroni. Gli "usi civici" in agricoltura si andarono a fare benedire. Le industrie furono trasferite al Nord.
Alle fabbriche settentrionali si decise di affidare sinanche la costruzione di armi e di sfornare cibo, vestiario e automobili, di sostenerle in continuazione con cospicui finanziamenti. La Marina Militare assegnò il minimo delle commesse ai cantieri navali del Sud, che chiusero i battenti. A tanti meridionali prima toccò di essere rieducati nei "lagers dei Savoia" di Fenestrelle e S. Maurizio, poi di espatriare con i "bastimenti" oltre oceano e più tardi al Nord : in tutto furono circa otto milioni i poveri "terroni" costretti ad emigrare.
     Ebbene, nonostante tutto ciò e tanto altro ancora che può essere rilevato ampiamente nei libri di storia, anche recentissimi, nonché nei trattati che agitarono l'irrisolta Questione Meridionale, nonostante le due guerre, di cui la prima vide i Meridionali concorrere con ragazzi spediti al fronte all'età di diciassette e diciotto anni, e la seconda che si concluse come sappiamo e col piccolo Re opportunisticamente in fuga e preoccupato di salvare solo la "Corona", al Referendum del 2 giugno del 1946 al Nord prevalse chiaramente la Repubblica e al Sud la Monarchia con punte dell'85% a Lecce e del 77% a Napoli.
     A Napoli in difesa della Monarchia il 10-12 giugno del `46 si ricordano i disordini di via Medina con l'assalto alla Federazione Comunista. Si contarono tredici morti e una settantina di feriti.
     Vien da chiedersi perché!

Forse perché il Re si era rifugiato a Brindisi? forse perché c'erano stati i due governi di Salerno? fu, quindi, effetto della propaganda di regime?
     E perché negli anni post-bellici a Napoli trionfarono le Amministrazioni Laurine di ispirazione monarchica e in moltissime altre città meridionali prevalsero amministrazioni monarco-fasciste? solo per l'esplosione di personalità locali?
     Anche la Resistenza al Nord ci fu e come e al Sud non ci fu.
     Al Sud si ricorda quella "degli avvocati, dei professori e dei giornalisti". Le Quattro Giornate furono ritenute rivolta spontanea contro l'insopportabile oppressione nazista, non collegata in alcun modo ad una profonda coscienza antifascista del popolo napoletano e, più in generale, di quello meridionale.
     Forse perché gli Alleati liberarono prima e subito il Mezzogiorno?
     A tutt'oggi, sebbene perduri il profondo abisso che separa le due Italie a netto vantaggio di quella settentrionale, (un divario che, come si è visto, parte da lontano e non sono bastati cinquant'anni di Repubblica per colmarlo), la destra politica e dei nostalgici è maggiormente presente e garantita al Sud, tanto che, appena gli sarà consentito, Vittorio Emanuele IV ha più volte espresso l'intenzione di rientrare proprio a Napoli.
     Perché persiste un tale anacronistico ed irriducibile orientamento conservatore di parte significativa della popolazione meridionale?
     Viene il dubbio che per troppo tempo a intere generazioni meridionali sia stato consentito di lavorare solo con lo Stato. Sono centinaia di migliaia quelli del Sud che militarono in eserciti che giurarono per il Re. Dopo trovarono lavoro nei carabinieri, nella polizia, nelle amministrazioni pubbliche.
Alternativa per troppi anni fu quella di coltivare i campi dei ricchi riconosciuti nobili o di espatriare con la patria nel cuore. Intere generazioni meridionali hanno trasmesso ai discendenti il loro sentimento nostalgico di fedeltà.
     Già, i sentimenti!
Non a caso Ciro Ridolfini è meridionale e ci offre "Maria Josè" ben prima dello sceneggiato che sta per andare in onda in televisione. Un carme il suo nato spontaneo all'annuncio della fine della lunga esistenza della regina.
     E anche qui il busillis. Una poesia pura, che viene da un uomo dì teatro (appassionanti le sue interpretazioni di Di Giacomo, di Scarpetta e, soprattutto direi, di Raffaele Viviani, tanto che da più parti è stato definito autentica maschera vivianesca), dal poeta di "A teatro da me" (ed. Marotta 1993), da un progressista.

 

"Chi accese il lumicino
Alla parola
Di un come si suol dir
Povero cristo?"


          E subito dopo Ridolfini si risponde:

 

"Più che la mente è il cuore
Che si commuove e osa scrivere di te"


     Una Maria Josè mai osannata, mai esaltata. Una Maria Josè ricordata discretamente in pochi punti del canto, direi con nobiltà, come ci hanno abituato tanti galantuomini meridionali.
     Come si sa, Maria José fu regina per un mese, ebbe solo il tempo di dedicarsi all'assistenza.
     Da regina viene ricordata per aver fondato la Colonia Maria Pia per i bambini delle donne lavoratrici, la mensa Maria Gabriella per i poveri, la casa Maria Beatrice per i mutilati.
     Veniva dal Belgio. Non aveva niente in comune con la storia d'Italia. Era figlia di Alberto I.
     La madre, Elisabetta, la "Regina Rossa", discendeva dalla famiglia della mitica principessa Sissi.
     Sposò il principe Umberto il 4 gennaio del 1930, un matrimonio da favola, Maria Josè aveva ventiquattro anni.
     Il suo ruolo di crocerossina, le sue simpatie politiche di sinistra, il netto schierarsi con la Resistenza, la vivacità della sua intelligenza, í suoi interessi culturali ci sono stati tramandati con unanime apprezzamento, tanto da ritenerla "la Regina incompresa" dai suoi contemporanei.
     Ma non ci può interessare solo questo di lei. Ci fa riflettere che aveva capito tutto e, se avesse avuto fortuna, sarebbe riuscita a cambiare la nostra storia.
     Odiava Hitler, era molto preoccupata per la politica di Mussolini.
     I congiurati da lei ispirati, quelli con "le barbette" sarebbero stati fermati dal Papa, da Pio XII, allorchè suo marito, il principe Umberto, commise l'ingenuità di andare a riferirgli. Si era nell'autunno del 1939 e il golpe fallì.
     Poi si sa che il golpe venne realizzato il 25 luglio del 1943, quella volta c'era Ciano schierato, ma, purtroppo, era tardi.
     Delle "barbette" Grandi dovette riparare in Portogallo, Balbo perì misteriosamente in Africa col suo aeroplano e De Bono fu fucilato dopo il 25 luglio del 1943 con Ciano.
     Alla regina toccò l'incrociatore "Duca degli Abruzzi" e con i figli dovette andar via dall' Italia. E dire che si era astenuta dal voto per il Referendum, ma per la Costituente aveva votato Saragat.

 

"Ci vedremo a fine di strada
In un mare di macchine annego
Non posso restare qui dentro
Vettura di sogni falliti"


     dice "fellinianamente" Ridolfini, direi volutamente felliniano, nel ripercorrere i momenti salienti degli ultimi cinquant'anni della nostra storia, quelli che abbiamo avuto e durante i quali anche Fellini e la sua "Dolce Vita" sono stati importanti.
     A mio avviso il componimento appare di facile lettura per il gioco che accompagna il susseguirsi dei versi, ma richiede, invece, attenzione e approfondimento, perché Ridolfini possiede indubbiamente personalità spigliata e di talento, ma anche precisa e scrupolosa. L' originalità del suo lavoro sta nel ripercorrere a vol d'uccello più i nostri anni che gli anni di Maria Josè. La mente di Ridolfini vola ai padri della Repubblica fino agli affossatori della così detta prima Repubblica. Il canto diventa canto lirico per chi costruì con sacrifizi inenarrabili, con dignità indimenticabile, con impegno e lungimiranza politica il nostro Stato moderno, libero e democratico, vivendo lacerazioni profonde e momenti esaltanti, le umiliazioni del congresso dei "21" a Parigi e le scelte fondamentali per il nostro avvenire occidentale. Fu compiuto il lavoro illuminato che ci guidò al miracolo economico e il canto, dicevo, diventa poi quello delle disillusioni, delle amarezze, dei dolori degli anni '80 e '90, durante i quali parecchio dello smalto repubblicano è stato perduto.
     E anche se l'Italia resta ai primi posti tra i paesi industrializzati e soprattutto paese libero e democratico, prorompe Ridolfini:

 

"Che nervi
Che caos
Che traffico
Ti lascio
Io vado
Più avanti
C'è aria inquinata
Più avanti
S'è il caso
Mi prendi"


     È il peso insopportabile del quotidiano che grava sul "povero cristo". Nell'ultimo ventennio in Italia gli sono state riservate condizioni difficili di vita, proibitive. "Alle croci calate addosso a tutti i cittadini" col malgoverno e la corruzione si oppone un sentimento di repulsa e di rivolta.
     Un sentimento che non poteva non essere manifestato che da un poeta, per giunta meridionale. Da qui il valore di "Maria Josè". Un sentimento rivolto spontaneamente a una "semplice donna e maestà" con e per "velata pietà"; ma anche stati d'animo che possono diventare più pericolosi di "Mani Pulite", avversi a chi non vuole intendere e continua nel malaffare.

 

Ruggero De Ruggiero
Dicembre 2001