UNA POESIA CIVILE

Prefazione al libro A TEATRO DA ME di Ridolfini

www.ciroridolfini.it

 

Non rarefatta grazia di scrittura, cui la voce leggendo possa aggiungere la densa percussione del suono, ma originario irrompere della parola nello spazio teatrale, martellante eloquenza in un tribunale dì lese «ragioni del cuore», articolato grido di una libertà conculcata salvo che nella voce, cui il notatile depositarsi nei segni grafici sopravviene solo a futura memoria, tutto questo è il concitato testo di Ciro Ridolfini.
Egli stesso non esita a dichiararlo, ad apertura delle sue pagine. Contro la pretesa della «grazia» («la grazia a cui mancai»), il poeta Ridolfini confessa la necessità del suo grido («dentro mi ha punto un dolore [...] picchiandomi a suoni cruenti»). Come in un' eco delle dolenti parole di Nietzsche («tutte le verità sono per me verità fatte di sangue»), la scelta stilistica di Ridolfini si annuncia alla prima battuta: «Mi sono insanguinato di versi».
Parlando il suo linguaggio «violento», Ridolfini non esita ad argomentarne la legittimazione poetica.
Tutto si fonda sul principio che «`o linguaggio è triato».
Il linguaggio è la potenza che «inventa» l'uomo. Cos' altro infatti è l'uomo se non coscienza, luogo di una messa in iscena, spazio di gioco di un dibattito, in cui il bisogno si fa richiesta e il dolore contestazione e il desiderio conoscenza e poesia? E come potrebbe la vita farsi teatro se il linguaggio non la investisse, imprigionandola in una rete di simboli, in ricorrenti scansioni di ritmi e caleidoscopìe d' immagini, e così, sprigionandone inaudite «visioni» ovvero «idee», la trasformasse da «oscura e confusa» e ingovernabile fattualità in «chiara e distinta» e governante finzione («allora non ti resta che fingere / lottando a piccoli passi»)?
Ma, se il linguaggio in quanto tale, in qualsiasi lingua incarnato, comunque «inventa» la vita ed è teatro, e perciò nella sua forza originaria, cioè come «poesia», è sempre 1'assoluto prodursi dell' umano nella sua drammatica storicità, Ridolfini, lettore di Viviani e di Pasolini, ma anche di Di Giacomo e dì Leopardi, non si accontenta di parlare la sua poetica eloquenza, ma sdoppia il suo linguaggio, ostentandone la duplicità nella stessa alternante tensione dell' italiano e del napoletano.
La doppiezza, al di là del linguaggio esibito, si annida invero nella storicità del suo esistere. «Ce stanno duje tip' 'e linguaggio / 'o linguaggio d' 'o forte e chillo d' 'o sotto». L' uno «è spuoglio / sfruntato / diretto». Esso, «tragico o allèro / è linguaggio sufferto / autentico / schietto». L' altro «linguaggio / suttile / fetente», «linguaggio padrone / linguaggio caìno», «fa spantecà» la «luce 'nnucente» del primo.
La doppiezza del linguaggio appartiene alla struttura dell' umano, alla sua storicità. L' essere proprio dell' uomo non è ciò che si trova ad essere, ma il suo farsi. Esso non consiste nella semplice e ingenua coscienza animale, ma nella coscienza critica di sé e del suo rapporto con il mondo, nel sapersi destinato alla morte e nell' attivo fronteggiarne la paura, mettendo in gioco la sua vita d' isolato individuo e, attraverso l' organizzazione civile, costruendo 1' universo durevole della cultura. Ogni individuo umano si fa spirito, in quanto autocoscienza, riconoscimento di sé, che non può però avvenire se non attraverso il riconoscimento che un altro fa di lui. Perché infatti il bambino si oppone con i suoi "no" ostinati ai genitori, perché il vero amore non è passiva sottomissione di un amante all' altro, perché 1'ambizione possiede l' uomo ben più dei piaceri cui per essa egli rinuncia, perché l' umiliazione è intollerabile, perché tutti in un modo o nell' altro vogliono udienza alla loro voce se non perché si è veramente uomini solo a condizione di essere «riconosciuti» ?
La più straordinaria metafora della dinamica storica dell' uomo come lotta di soggetti, individuali e collettivi, è la celebre figura hegeliana del rapporto servo-padrone. Per elevarsi dalla semplice e ingenua coscienza naturale alla spirituale libertà dell' autocoscienza, il soggetto deve, dominando la paura della morte, rischiare la sua vita naturale nello scontro con 1' altro soggetto e, vinto costui, ottenerne in cambio della vita la sottomissione e il «riconoscimento». Ma il servo, costretto al lavoro, impara a dominare la natura trasformandola, e diventa così ben più potente del padrone, il quale alla fine, divenuto imbelle e rimasto inoperoso, e ridotto il suo potere a mera apparenza, finisce per essere travolto dalla rivoluzionaria ascesa dell' altro, e dovergli lui tributare il suo «riconoscimento».
Il linguaggio «inventa» l' uomo, lo costituisce come essere storico, ma a sua volta la storicità dell' uomo, nel suo incessante polarizzarsi e rovesciarsi di un estremo nell'altro, il «sopra» sotto e il «sotto» sopra, sdoppia il linguaggio. In questo sdoppiamento si condensa la carica rivoluzionaria che muove la storia. Il linguaggio del «signore», cioè del potente e «libero», è vile, ipocrita ed elusivo, in una parola è servile , ( «senz' anema / senza curaggio», «parla ô scuntrario / te fa 'mbruglia'»). Il linguaggio dell' oppresso, del «servo», se si nutre della solidarietà di tutti gli oppressi, se è voce di popolo, allora è arditamente schietto, «franco», in breve è libero («franchezza d' 'a gente / 'e nu populo intero / Che ricchezza nu populo tene / si 'o linguaggio è sincero»). Il linguaggio del signore è l' energia del vecchio potere, che viene svuotandosi. Il linguaggio del popolo è 1' energia del potere nuovo, che viene riempiendosi.
Ridolfini, contro la vuota e leziosa grazia della lingua padronale («parola / priva di sensi utili / impensata»), avventa la cantante lama del suo eloquio napoletano («parola / che comm' 'a musica / peggio 'e nu rasulo / te taglia e lascia 'o segno ca nun more»).
Qui però sta il tragico del popolo napoletano. Poeticamente ne dà conto Ridolfini. Il linguaggio napoletano è sì «franco» e dunque libero, ma la sua è una libertà per così dire introversa, che tutta risolta nella potenza soggettiva del suo canto sembra avere rinunciato alla lotta per il potere e dunque per la libertà oggettiva. Napoli è «nu purgatorio marginale e raro / posto a' 'e cunfine 'e ll' italianità». La gente di Napoli non è un popolo, ma, a voler tradurre Pasolini, «na tribbù», che «ha deciso 'e muri' / rifiutann' 'o potere / o chella che chiamammo 'a storia oppure 'a mudernità». Insomma, «'e napulitane hanno deciso 'e muri / restanno fino all' urdemo napulitane».
Dalla storia, che è l' incessante movimento di rovesciamento del vecchio potere ad opera del nuovo, Napoli si è dunque tirata fuori, cercando nel suo linguaggio «franco» non la crescente energia per un emancipato potere, ma il luogo «marginale» di una libertà poetica che, nel tragico dell' impossibilità, immutabilmente compensa con la parola eccessiva 1' «esistenza mancata».
Ma disperare della storia è anche un diffidare del linguaggio che è teatro, uno schivo ritrarsi dalle maschere linguistiche con cui si gioca il proprio molo nel teatro della vita storicamente paludata.
La tribù napoletana sembra allora più scettica che disperata, interessata più agli interstizi dell' essere che ai grandi spazi dell' apparire, più al fronteggiarsi trepidante di due persone che alle grandi scene corali della storia.
La stessa teatrale eloquenza di Ridolfini in qualche punto si rompe, e la sua voce declina dalla «rabbia» della condanna alla sommessa confessione di una foscolianamente indomabile inquietudine («Quiète / cosa darei / per incontrarti per poco»). Allora gli appare decisivo, perché l' esistenza non sia veramente «mancata», scandagliare l'esiguo ma non valicabile vuoto tra 1'esternità della maschera e l'internità del volto di carne, tra l'«io» e l' «uomo», nel mezzo dei quali ogni singolo oscilla. «Quanto mi pesa / il tuo credermi / la maschera / che t'offro / Spazio contemplo tra la mente e il cuore / laddove il cuore è istinto / sentimento / la mente metodo / pensiero / la ragione / Spazio tra noi due / io e 1' uomo / Da questo vuoto assurdo mi difendo / e mi realizzo a costo di dolore ».
La poeticità della parola di Ridolfini, pericolosamente sospesa tra la teatralità della storia ed il silenzio dell' anima, con la sua stessa martellante disperazione accoratamente ammonisce la tribù napoletana e tutte le tribù marginali del mondo. Essa dice: chi troppo a lungo si mantiene fuori delle altisonanti parole del teatro, alla fine impigliato nella ripetitività delle cianfrusaglie e dei minuti rumori del retroscena neppure più avverte la muta parola del silenzio. Senza l'azione emancipatrice, l'esistenza finisce radicalmente «mancata», priva di senso.
La teatrale poesia di Ridolfini è, in conclusione, un saggio di poesia civile.

 

marzo 1993
ALDO MASULLO